Le janas, la tessitura e la creazione di realtà: analisi della leggenda


San Pietro di Sorres – Fonte Sardegna Turismo

La tessitura in Sardegna fa il paio con le janas, le nostre mitiche fate, piccole porte per un mondo altro, quello dei capovolti.

Ce lo racconta la tradizione, ce lo raccontano is contus[1] che continuiamo ostinatamente a raccontarci, ce lo racconta l’istinto, ma più di tutto ce lo raccontano le leggende antiche e moderne.

Quella che ti riporto oggi è l’analisi ad un racconto relativamente recente: puoi leggerlo a conclusione di questo pezzo, o meglio ancora nel piccolo ma gustosissimo libricino “Leggende Sarde”, che una giovane Grazia Deledda compilò a mo’ di esercizio finale dopo aver raccolto lungamente, per lavoro di ricerca, le tradizioni della sua Nuoro. Oh quanto mi sento affine a quella grande donna (occhi a cuoricino).

La leggenda riportata è fatta risalire dalla stessa Deledda a Pompeo Calvia, poeta, allora piuttosto noto, che a sua volta contestualizza le vicende intorno ad un vago anno mille. Insomma sarebbe stato meglio dire “C’era una volta”, ma vaglielo a spiegare a Pompeo.

La paristoria racconta di una donna misteriosa che ostinatamente vive nascosta in una casupola situata in Sorres, allora pressoché deserta dove era presente una chiesa sì, ma diroccata.

La donna misteriosa che per buona parte della storia non si vede, ma c’è, la si sente cantare, la si sente tessere, ma soprattutto se ne percepisce la presenza, è chiaramente una jana.

Ha rinunciato ai vezzi silvestri che le sono propri in parecchie leggende sarde, e fa parte di quella schiera di fate abbigliate alla maniera umana, riccamente addobbate, bellissime, perfettamente in ordine, in grado senza far fatica di mantenere in un ordine aulico la propria casa. Insomma una jana ma già fortemente stilizzata e aggiogata all’archetipo de sa bona mere de domu[2]. Quell’archetipo ha fatto la dannazione di moltissime donne sarde, visto che non solo ti diceva come dovevi essere, ma ti diceva anche cosa dovevi desiderare. E se non desideravi quel che la società maschiocentrica richiedeva (quella sarda non è diversa dalle altre da questo punto di vista), eri una disobbediente. Per saperne di più beccati questo post.

Caratteri della casa (interno ed esterno)

Nonostante il luogo di svolgimento della storia sia dichiaratamente cittadino, di cittadino in realtà c’è poco. Sorres è deserta: gli abitanti compaiono come fantasmi, in due sole circostanze: il maestro chiede informazioni sulla donna misteriosa, i cittadini festeggiano la costruzione della chiesa.

La donna misteriosa che da ora in poi chiameremo jana (se non sai chi sono le janas leggi qui), vive in una casa, ma è una casa strana. Esternamente è stretta da una vegetazione abbagliante (un po’ come Circe nella sua isola). Internamente la casa è viva, luogo di creazione. Alle pareti ci sono degli arazzi che cambiano continuamente, si tessono autonomamente, mossi forse dall’intenzione della jana. L’immagine della chiesa che il maestro di Sorres ha appena costruito, campeggia all’interno della casa, quasi a dire che la jana tessendo ha creato realtà.

La casa più che una casa è la cara vecchia caverna / domus de janas, proprio come il villaggio più che villaggio è agro. La casa / caverna / domus è luogo di creazione, luogo di trasformazione, luogo di morte, luogo di rinascita. Dentro la caverna troviamo la jana, colei che ci guida verso il raggiungimento dei nostri obiettivi, che è davvero meglio non disturbare se non siamo pronti ad avere a che fare con lei. Spoiler – il maestro di Sorres che la contatta fa una brutta fine, ma proprio brutta brutta.

Caratteri della jana

La jana è tratteggiata sul modello donna perfetta e irraggiungibile, un po’ angelo un po’ demone. Pompeo aveva un’idea delle donne un po’ alla vecchia maniera, è evidente. Insomma la jana / donna misteriosa sembra un soprammobile.

In realtà, sorvolando sui dettagli di poco conto: è bionda, è bellissima, veste d’argento, è pallida (questo non è un fatto di poco conto, ma te ne parlerò altrove), ci sono dei tratti che vanno individuati. E’ evidentemente scalza, e solo le dee possono permettersi questo lusso: la salute dei piedi ai tempi era rilevante. L’unica cosa che indossa sono rami d’ulivo, pianta della rinascita e della divinità. Nelle mani invece porta foglie di alloro, pianta della divinazione. Ne lascia cadere una e l’uomo la raccoglie: è evidente che voglia conoscere il proprio destino anche se ancora non è pronto. E la jana, è evidente, può raccontare o determinare il suo destino.

Anche le sue parole sono chiarificatrici: mille e mille gradini granati devi salire per arrivare a me che sì vicina ti sembro. Quando vi arrivi sono fredda come la morte. La jana si presenta per quel che è: figura sacra lontana dal mondo degli esseri viventi per quanto vivente essa stessa. Sacerdotessa che gestisce la vita ma anche la morte e della morte ha preso il pallore, le scomodità, la temperatura.

La figura della fatacome ci si aspetta da ogni fata, è ipnotica. C’è anche quando non si vede (praticamente per tutto il racconto) e oscura totalmente il motivo fondante del mito: raccontare la nascita di una chiesa cristiana. Questa leggenda di fondazione, evidentemente moderna, usa un mito molto più antico, ed evidentemente molto più affascinante, quello delle janas, che ahimé, gli si è ritorto contro, rubandogli totalmente la scena.

La tessitura

Il maestro di Sorres è attratto alla casa come una mosca dal miele. Il miele in questo caso è un arazzo favoloso che una misteriosa donna (sì sempre la nostra jana) ha tessuto. Gli viene detto che ogni mese espone un arazzo diverso: questo mese il tessuto mostra qualcosa di incredibile: gli astri, figurini e foglie di alloro. Quella donna, è chiaro, conosce le regole dell’universo.

Da qui nasce ogni invadente curiosità del maestro che lo porterà a compiere il suo destino: costruire una chiesa su ispirazione della fata prima e morire poi.

Alla maniera degli stolker più audaci perseguita la fata: le fa appostamenti sotto casa, la tortura di domande, le chiede di far qualcosa per lei (regalarle l’ispirazione per la chiesa), origlia alla sua porta e la sente cantare e tessere: sono due arti di creazione antichissime spesso associate. Cantare è arte delle incantatrici, coloro le quali con le parole creano realtà, la tessitura alla stessa maniera crea (te ne parlo qui e qui). Il maestro di Sorres non sa nemmeno chi sia la jana, come sia e cosa desideri, ma se ne innamora. Insomma, vuole per sé quella mirabilia.

Quando riesce finalmente ad entrare nella casa tramite un passepartout botanico, la rosa, al centro della sala è un telaio d’oro, come d’oro sono i fili che il telaio intreccia. Alle pareti ci sono arazzi che mutano costantemente forma, così come mutevole è il destino e la realtà: in base ai fili che vengono mossi, l’immagine finale cambia. E’ regola universale.

Lui non è interessato alla professione divina della donna, creatrice sacra, ma alla sua forma umana. Il suo desiderio unico è di portarsi a casa quel soprammobile. Non è evidentemente pronto alle rivelazioni che quella creatura potrebbe donargli.

Il maestro di Sorres

L’uomo viene divorato dalla jana, che è composta evidentemente in buona parte dall’archetipo della strega (impossibile sciogliere le fate dalle streghe). Se non hai fatto i conti con le tue ombre, le tue ombre ti divoreranno. E il maestro di Sorres viene divorato e ritorna alla sua forma originaria: energia universale. Verrà usato dalla fata per creare realtà su questo piano.

L’atteggiamento dell’uomo e la risposta della jana rispettano gli schemi delle storie di Sardegna. L’uomo abusa della fata: qui è un bacio rubato, altrove si trattava di bottoni d’oro rubati, o le masserizie esposte alla luna sottratte con l’inganno.  La jana sa difendersi: qui l’uomo muore stecchito, altrove viene tramortito e dissanguato. Dal sangue dell’uomo nasceranno nuove janas.

Il motivo narrativo è sempre lo stesso e forse ricorda di quando le furono tradite dall’uomo.

Conclusioni

Anche in questa storia, chiaramente rimaneggiata alla maniera italianota e maschiocentrica, rimangono vivi i motivi collettivi che vivono in tutte le leggende sarde. La tessitura crea e le janas sono tessitrici che non fanno parte di questo mondo, se non occasionalmente, ma che questo mondo aiutano a governarlo. Sono anime antiche, poco interessate alle dinamiche che muovono il Maestro di Sorres.

La morale è questa: abbi rispetto delle janas, e non pretendere di stanarne una dalla sua caverna se non sei pronta/o a sostenere il suo sguardo. Se non hai attraversato il tuo bosco e fatto i conti con la tua parte ombra è meglio che tu non abbia a che fare con le janas.

Qui sotto trovi la leggenda originale. E per la cronaca, la chiesa di Sorres esiste ancora oggi, è sembra tessuta da una jana. Buona lettura

San Pietro di Sorres[3]

Questa leggenda è sulla chiesa di S. Pietro di Sorres, vicino a Torralba: un’antica chiesa storica, ora quasi rovinata, ritenuta, dice il Calvia, per il più antico monumento dell’arte medioevale che vanti la provincia. La dolce e misteriosa leggenda narra che viveva anticamente, forse verso il mille, un giovine mastro di Sorres, artista, poeta gentile; il quale tornando nel suo paese dopo aver studiato oltremare, presso un pittore ed architetto famoso, rimarcò nel villaggio una finestra misteriosa «dove con molta grazia ed abbondanza crescevano le rose, e le campanule s’intrecciavano alle spirali delle colonnine», che non si apriva mai, e tra i cui fiori non appariva mai nessuna testa. Solo ogni mese un arazzo intessuto di astri, di figurine e di foglie d’alloro, sventolava leggero sul davanzale, ma invisibile era la mano che lo spargeva e lo ritirava. Mosso dalla curiosità il giovane artista chiese informazioni su quella casetta arcana; ma nessuno gliele seppe mai dare. Il mistero più intenso regnava là intorno. Allora il giovine si recò una notte ad origliare presso quella finestra e sentì solo una soavissima voce di donna cantare «come un canto di cigno che muore», e sentiva pure il muoversi leggero delle spole di un telaio. Arso dalla curiosità l’artista un’altra notte prese la sua mandola e cantò una triste appassionata canzone sotto la finestra bizzarra. Poi, siccome la neve cadeva e la notte era cruda, picchiò chiedendo asilo e dicendosi un viandante smarrito. Ma una voce soave gli rispose: «Io non ho pane da darti, nel mio piccolo giaciglio non sono che spine; mille e mille gradini granati devi salire per arrivare a me che sì vicina ti sembro. Quando vi arrivi sono fredda come la morte. Viandante, va!». E siccome lui insisteva lo consigliò di ricovrarsi nella chiesa vicina, ma egli replicò che la chiesa cadeva in rovina e dentro ci nevicava come fuori. «Fatene una voi, allora!», esclamò la voce. «Io farolla se voi m’ispirerete il disegno!»

«Te lo darò, va!» E la voce non parlò più. Il giovine se ne andò, e dopo molti mesi vide nella finestra sparso un magnifico arazzo con una chiesa pisana ricamatavi. Era meraviglioso: vi si scorgeva tutto l’interno, coi più minuti particolari, e l’artista capì subito e si scolpì in testa quel disegno. Ma abbisognavano molti denari per costrurre un simile tempio e il paese era poverissimo. Come fare? Il giovine, innamorato perdutamente della misteriosa abitatrice di Sorres che gli aveva proposto la costruzione della chiesa, deciso di adempiere la sua promessa pur di giungere a conoscerla, dipinse una Madonna in campo d’oro, con un mandorlo fiorito in mano, e regalò la squisita sua dipintura alla vecchia chiesa cadente. Tutti ammirarono il quadro, e una mattina videro che la Madonna invece del mandorlo teneva in mano, una chiesa. Era simile a quella dell’arazzo, ed era stato il giovine che, introdottosi furtivamente nella notte in chiesa, l’aveva dipinta, cancellandovi il mandorlo. Si gridò al miracolo, e si disse subito che la Madonna voleva una chiesa così! Allora un fraticello prese il dipinto miracoloso e corse per i castelli ed i contadi e le ville raccogliendo denari e offerte per la costruzione della chiesa. E quando ebbe riempito d’oro molti forzieri propose al giovine mastro di Sorres di edificare il tempio. Egli accettò: molti operai vennero chiamati all’opera e in breve – non ostante i mali spiriti che ogni notte distruggevano il fabbricato -, la chiesa sorse, bella e ricca come nel disegno dell’arazzo! Nella notte precedente il dì della consacrazione, mentre tutto il villaggio, animato dalle genti dei villaggi vicini, festeggiava il grande avvenimento, il giovine mastro si recò alla casetta misteriosa e batté alla porta. «Chi sei tu?», chiese la dolce voce incantatrice. «Son venuto a prendere un fiore dalle tue mani e porlo alla Madonna, sospirò il giovine, aprimi!»

«Bene sta, vengo.»

La porta si aperse per incanto ed il giovine si trovò dinanzi alla misteriosa, che pareva vestita d’argento, con una stola nera sulla veste, sparsi i biondi capelli sulle spalle e pallidissimo il viso che spiccava nettamente innanzi ai ricami delle pareti, i quali sempre s’andavano cangiando, in intrecci di rabeschi e figure perfettamente intessute e disegnate. Nel mezzo di dette stoffe, immutabile campeggiava la chiesa di San Pietro di Sorres. In un canto stava il telajo, e d’oro tutti parevano i fili. La bella accennò con gli occhi sereni, senza mutamento, tutta composta nella soavità dell’atto come le figure che si vedono nei mosaici bizantini. Aveva al piedi ramoscelli d’olivo e nelle mani rami di alloro con le bacche d’oro. La bella lasciò andare una foglia di lauro, ed egli si chinò per raccoglierla, e come vide che la donna accennava d’avvicinarglisi, bella così come i sogni dell’ideale, il giovine si avvicinò ed un bacio pose su quelle labbra divine. Ma non appena ebbela baciata, che tutto si sentì un gelo come di sfinimento per le membra, e cadutole ai piedi, dolcemente guardandola morì!


[1] I racconti

[2] La brava padrona di casa

[3] Grazia Deledda. San Pietro di Sorres in Leggende Sarde.

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