Carnevale sardo: camera delle meraviglie

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Ci ho pensato a lungo: il valore profondo del carnevale non risiede solo nei parafrittos o is tzipulas. Il suo valore profondo sta nel fatto che è uno degli ultimi riti collettivi che ci rimangono. Ricco di sincretismi, di resistenze culturali riadattate alla e dalla nostra società, ma pur sempre un rito collettivo. Uno dei pochi che ci rimane.

E’ rito nel fondo, anche se è evasione potrei dire, disturbando Pasolini.

Si tratta di un rito collettivo che come ogni rito collettivo modella il pensiero, lo mette in immagini, lo racconta, lo porta fuori e lo trasforma in segno.

Pensaci: tutti partecipiamo al carnevale, anche chi non vuole. C’è chi assiste alle sfilate, chi si fa sporcare le guance di carbone per il selfie di febbraio, chi indossa una maschera, chi cucina le zeppole (ti allego il link se vuoi entrare nel club “la prova costume andrà meglio l’anno prossimo”), chi le compra in pasticceria che tanto sono buone uguale. Tutti, volenti o nolenti, partecipiamo.

Una grande comunità, che per la maggior parte del tempo si dimentica di essere tale, per carnevale si ferma, si raccoglie davanti al un fuoco di un falò o di un fornello e osserva il mistero del carnevale, riuscendo in tal modo non a superare, ma almeno elaborare i propri conflitti ed i propri dolori.

Le foto, i video, i post sui social, la riscoperta prepotente e spesso forzata delle maschere è un altro, nuovo modo per partecipare attivamente al carnevale. Un rito collettivo che permette ad un popolo spiritualmente analfabeta di riunirsi e celebrare. Sì, ma cosa? Te lo sei mai chiesta/o cosa celebri con il carnevale?

Del carnevale e delle sue origini è stato detto tutto e il contrario di tutto, per cui mi atterrò, molto sinteticamente (non credermi😅) a trattare argomenti che normalmente non vengono considerati.

Sul fatto che il carnevale sardo sia antichissima reminiscenza di rituali passati non ci piove, e non mi ci soffermerò. Non ci piove che si inserisca a pieno titolo nel grandioso e per lo più inutile tentativo dell’uomo di aiutare Natura nella sua opera di rigenerazione. Inutile perché Natura sa perfettamente fare da sé, ma tant’è, noi lo zampino ce lo dobbiamo mettere sempre. Non ci piove nemmeno sul fatto che il carnevale abbia le sue vittime, il suo sangue che si muta in vino, i suoi morti e i suoi rinati: sono tutti elementi che ci aiutano a individuarlo come celebrazione dionisiaca, e Dolores Turchi questa cosa l’ha raccontata meglio di me, quindi taccio.

Due sono gli elementi di cui voglio parlarti oggi: del carnevale come wunderkammer (camera delle meraviglie) e contenitore di personaggi mitici scomodi, e del carnevale come ritorno a Natura.

Il carnevale come wunderkammer

Amo l’ordine (il mio ordine disordinato) e la chiarezza. Per cui una delle cose che del carnevale mi ha sempre infastidito è che al suo interno stanno una marea di cose, meravigliose sì, ma che non ci azzeccano niente le une con le altre.

Prendi ad esempio Maimòne, l’antichissima divinità pluviale invocata durante i periodi secchi. Lo sapevi che è anche una maschera carnevalesca?

La presenza di Maimòne (ma anche Maimòni e altro) nel carnevale di Tertenia e Ogliastra in genere, lascia senza parole, visto che l’acqua ha poco o niente in comune con il carnevale.

In Tertenia Maimòne è gatto, sa gattu maimòni appunto, e ogni carnevale muore.

Maschera Maimòni. Originale datazione incerta appartenuta ad Antonio Depau

Sia la forma di gatto, sia la filastrocca che ne racconta la morte, legano la figura al mondo acquatico.

Il gatto conosce una stretta correlazione, come evidenzia G. Paulis, con il babbuino / scimmia, animale lunare e dunque legato al simbolismo delle piogge.

Il legame fra scimmia e gatto si crea per via del fatto che le movenze della scimmia danzante (da ricordare la connessione fra Maimòne e maymùn, da tradursi come scimmia) ricordavano da vicino quelle dei gatti. Nel sentito comune dunque scimmia deve essere diventata presto equivalente o similare a gatto[1]”.

Non sfugga inoltre che sa martinica è, nella Sardegna meridionale la scimmia animale evidentemente noto dagli isolani (vedi ritrovamenti fossili isolani).

A sa furca / Solu solu

A sa furca / Inforcau

Maimòni abrugiau

Quella che precede è la filastrocca al suono della quale il gatto Maimòne viene impiccato ogni anno. Il canto si chiude con un esplicativo “Maimòni bruciato”, forse antico tentativo di invitare la divinità alla pioggia.

Fin qui il carnevale, ma le cose non tornano quando, osservando tutta la valle del Tirso Maimòni risulta divinità pluviale pura, che niente ha a che vedere con il carnevale.

In fase di cristianizzazione questi rituali devono essere stati modificati prima (frasche in forma di croce, uso della pervinca pianta legata al cristianesimo), ed infine accorpati al carnevale, periodo in cui sono consentite esuberanze pagane che già in epoca di quaresima devono essere dimenticate. Per questo forse Maimòni come divinità della pioggia diventa in seguito Maimòni Re del Carnevale esattamente come si è conservato a Tertenia[2]”.

Ph Web Maschera de su Composidori

Altro esempio degno di nota è quello della Sartiglia, un insolito tipo di carnevale? Viene da domandarsi.

Ma quale carnevale. In effetti la Sartiglia diventa di carnevale solo nella seconda metà del settecento.

Prima di allora non ci si sarebbe nemmeno sognati di associarla al periodo carnevalesco visto che da tutti era conosciuta come mirabolante corsa all’anello.

Un tempo questo genere di giostre erano piuttosto comuni nel Mediterraneo, oggi decisamente meno. Sorticula era nel mondo latino un anello, e sors era sorte: la Sartiglia è ancora oggi una corsa all’anello (stella) che richiede, per la sua riuscita, l’intervento incisivo della buona sorte.

Pare che questa tipologia di giochi siano stati portati in Europa dai Crociati intorno all’XI secolo, scopiazzati dai loro nemici giurati, i Saraceni. Oh benedetti cristiani! Si trattava di veri e propri esercizi di cavalleria, forme spettacolari di addestramento, che si mutarono in occasione di divertimento, in giostre pubbliche offerte da regnanti e/o corporazioni in occasione di speciali festività.

Dunque sul finire del settecento, visto che davvero la Sartiglia non si sapeva come collocarla, si scelse di inserirla all’interno della camera delle meraviglie che è il carnevale. Niente di nuovo: molti secoli prima dentro la Sartiglia vennero probabilmente nascosti elementi arcaici e agrari stupefacenti (vedi su componidori e sa pippia de maju dei quali parleremo altrove).


ph-Cinzia-Carrus-e-Nicola-Marongiu

Sarebbe bello parlare anche anche della figura de sa Filonzana, la filatrice che divina. Anche lei in realtà ha poco a che vedere con il carnevale ma li sopravvive con buona pace della coerenza mitologica da parecchio tempo. Non lo farò, mi ero ripromessa di essere breve no?

Il Carnevale ad oggi è a tutti gli effetti un contenitore che custodisce tutti quei rituali e quelle figure scomode per una religione “nuova”, che non sono potute scomparire e sono state allora conservate in un periodo anomalo, grottesco, deviato, insolito, da non prendere sul serio, oltre il reale che in pochi giorni viene dimenticato e sostituito dall’ordinario.

Per questo tutte le volte che entro dentro il grande periodo che è il carnevale lo attraverso come farei se fossi dentro una mirabolante wunderkammer, una stanza delle meraviglie dove ogni cosa ha lo scopo di lasciare senza parole.

Il carnevale come ritorno alla natura

Il carnevale non è solo Magic Box, ma è tentativo di ritorno alla natura, o per lo meno così la intendo io.

Dentro il carnevale ancora oggi ritrovo quel senso di venerazione e ammirazione che era dell’uomo paleolitico e neolitico per gli animali e la natura.

Grotte di Lascaux

D’altronde l’uomo si è montato la testa di recente, da quando qualcuno gli ha detto di “riempire la terra e soggiogarla: dominare sopra i pesci del mare e su tutti gli uccelli del cielo e sopra tutti gli animali che si trovano sopra la terra”.

Prima le cose andavano in maniera differente. Gli animali e la natura non erano da soggiogare: erano maestri da venerare e ringraziare. Diventare come gli animali, esattamente come si fa durante molti carnevali sardi, era un privilegio per pochi.

Se torniamo indietro nel tempo, diciamo al paleolitico, questo legame appare chiaro anche a noi, gente spiritualmente analfabeta. Basta osservare le pitture rupestri. Osservale.

Nelle caverne gli animali venivano raccontati e venerati: gli uomini presenti in quegli affreschi erano pochi e facevano di tutto per confondersi con gli animali. Li hanno chiamati sciamani animali. Erano tutti animali tranne che per la posizione eretta e per i piedi, un po’ come il demonio oggi è tutto umano tranne per gli zoccoli o le zampe da gallina (noti come si è invertita la situazione?).

Se non fossero stati sacri, gli animali, non credo che l’uomo paleolitico avrebbe rischiato la sua vita per dipingerli. Perché era quello che succedeva.

Pensa l’ansia e il timore della donna e uomo di millenni fa, che al buio e nell’incertezza strisciava negli anfratti più neri e scuri di Terra nella speranza di raggiungere, viva e vivo, caverne umide e fonde, nelle quali aveva missione di tracciare linee che raccontavano di animali totemici.

La spinta la dava la necessità: quando la terra era una tundra gelata, e lo è stata per cicli di tempo davvero lunghi, l’unico sostentamento per l’uomo era l’animale. Non solo la carne animale nutriva, ma le pelli, ossi, zanne, grasso si potevano trasformare in pellicce, capanne, gioielli, aghi, pennelli, amuleti e lampade.

Gli animali erano maestri. Osservandoli si imparava l’arte della vita e della morte. D’altronde gli animali erano superiori all’uomo: nella vista notturna, nella resistenza, nell’equilibrio, nella velocità, nella forza, nell’istinto: discipline come lo yoga ancora oggi attingono a piene mani dal mondo animale e naturale per la realizzazione di asana e tecniche. E non è un caso.

In questo senso è probabile che gli animali fossero ritenuti incarnazione e dono del potere divino che la Dea concedeva all’uomo per rigenerarsi, vivere, proseguire. Sono molte le tradizioni tribali ancora oggi in vita che vedono negli animali il tramite fra uomo e divino: per mezzo degli animali il divino parla agli uomini e insegna loro saggezza. Non si mostra mai all’uomo, ma sempre l’uomo è raggiunto da un animale per mezzo del quale la saggezza viene condivisa. E la donna e l’uomo che riceve l’informazione non è chi che sia: è una sciamana/o che sa mutarsi in animale, che sa vestire i panni dell’animale, che sa sentire, vedere, correre, volare come un animale.

L’animale era sacro: per questo si rischiava la vita, scivolando nei più remoti angoli del sotto suolo per imprimere le sue forme nelle pareti delle caverne – utero divino. Per unire il mito della Dea al mito della caccia. Un rischio che l’uomo sentiva necessario per la sua sopravvivenza.

In un momento imprecisato degli ultimi tre milioni di anni (che poi a sforzarci possiamo anche identificarlo quel momento – vedi tradizione giudaico cristiana) l’identificazione fra uomo e animale si è spezzata e l’uomo s’è posto fuori dalla natura. La natura ha smesso di essere Dea e Dio è salito in cielo, non più padre biologico degli uomini e donne, ma spirituale. In un colpo solo abbiamo perso il legame con gli animali, la madre sacra e la nostra eredità divina della quale avevamo pieno diritto in quanto figlie e figli di una divinità. Bella trovata davvero! Non c’è che dire.

Un isolamento dal mondo naturale di tale portata sarebbe stato abominio per l’uomo paleolitico e neolitico. Non è un caso che un ritorno alla natura, tempo definito come dell’oro, sia stato bramato e auspicato da tutta la classicità. Un bisogno che è latente ancora oggi, e che noi pure possiamo percepire in gradi diversi di intensità.

Le maschere del carnevale, sardo e non solo, che impongono all’uomo e alla donna di vestire forme animali, sono secondo la mia visione, ricordo di quando l’uomo si mutava in animale per parlare con il divino e ricevere dal divino saggezza e sogni, unico, reale modo per rendere possibile la sopravvivenza del gruppo umano.

Fonti

Francesco Alziator, La Sartiglia, Sestu, Zonza Editori, 2007.

G. Angioni, Sagre, riti e feste popolari della Sardegna, (a cura di) G. Deidda e A. Della Maria, Newton Compton, Roma 2002

A. Baring, J. Cashford, Il mito della Dea. L’evoluzione di un’immagine. Venexia 2017

C. Zedda, Carnevale Antico e Moderno a Tertenia, 2017

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