Gàtulis: non c’era una volta la patata in Sardegna

Ti racconto i gàtulis

La storia che ti racconto oggi parla di patate, formaggio e semola. La storia che ti racconto oggi ha profumo di casa delle nonne, odora di giorni festivi, ha il sapore dell’incredibile ingegno femminile. La storia che ti racconto oggi parla di piccoli anelli che sembrano d’oro ma sono fritti, di patate e
fisciu , che ogni donna e uomo dovrebbero ricevere almeno una volta nella vita, meglio se caldi. Altro che diamanti! La storia che ti racconto oggi è sporca di semola e comincia con un: non c’era una volta la patata in Sardegna.

Non c’era una volta la patata…

Ci si aspetterebbe, conoscendo la tradizione gastronomica sarda, che la patata sia dei nostri da moltissimo tempo. La Sardegna ne avrebbe avuto diritto in quanto colonia spagnola, ma le cose in realtà non andarono così. Di patate si comincia a parlare, per la Sardegna e non solo, tra la fine del settecento (molto timidamente) e inizi dell’ottocento.

E c’è da dirlo: la patata non era ben vista. Era cibo per il bestiame. Consigliatissimo per i maiali perché faceva buon latte, o così si raccontava. Per renderle forse più appetibili le si paragonava ai tartufi e Giuseppe Cossu nel suo trattato in sardo campidanese, interamente dedicato alla patata, scritto probabilmente nel 1785 ma edito nel 1805, consiglia anche come cucinarle: lesse o cotte sotto la cenere ma comunque ammorbidite con il latte. Metodi che entrambi hanno avuto un certo successo, per quanto la seconda tecnica di cottura, ahimè, sta cadendo impietosamente e disgraziatamente in disuso.

Che Cossu le consigliasse e le assimilasse al tartufo non interessava un granché ai sardi che avevano altro da consumare: la patata trova meno reticenza là dove i cereali avevano difficoltà di crescita: Barbagia, Ogliastra, Gallura. In queste zone c’era acqua, c’era freddo e non c’era grano: qui il pane non era la super star della tavola, ma lo erano i prodotti boschivi come le noci, le ghiande, le castagne, le nocciole. Fame eh?

Le patate, mi preme dirlo, le conoscevamo anche al sud: Assemini e Pula le coltivavano e con grande successo. A Pula già nel 1700 faceva parlar di sé l’azienda di Don Agostino Grondona che produceva fra le altre cose patate, e Assemini riforniva il mercato di Cagliari che, pur timidamente, cominciava a consumarle.

Ma l’introduzione della patata era vista come una forzatura: la mangiavano i maiali, lo abbiamo già detto, e questo non denunciava a favore del tubero. Sembrava inoltre che il governo volesse imporre una nuova dieta ancora più misera e scarsa. Infine coltivare la patata non era cosa facilissima: non ne so molto, ma ho letto che cresce con condizioni climatiche particolari (freddo e abbondanza di acqua), rare nelle pianure del campidano.

Un bell’incentivo al consumo di patate si ha tra il 1810 ed il 1812 a causa di una carestia che rimane cristallizzata pure nel parlato odierno: quando si parla de su famini de s’annu doxi ci si riferisce appunto alla fame del 1812, carestia causata dall’esubero di pioggia e non dalla siccità, come comunemente si ritiene.

Sia come sia le signore sarde si rimboccarono le maniche delle camice e si misero ad impastare: non c’è semola? Perfetto! Usiamo patate. In Barbagia, Ogliastra e Gallura durante l’ottocento nascono pietanze che mescolano sapientemente grano duro, formaggio e patata (è probabilmente da imputare al successo della patata la scomparsa del pane di ghiande). Su culurgione de casu viene arricchito (ma sarebbe più corretto dire impoverito) con l’uso delle patate (così probabilmente nascono i noti culurgiones ogliastrini), e molti pani deliziosi vedono nell’impasto l’aggiunta della patata. E’ probabilmente in questa situazione di cose che a Villagrande Strisaili il primo timido, croccante, delizioso gàtuli viene buttato in un un pentolone d’olio.

Il risultato fu buono, tanto buono che i gàtulis divennero pietanza “nazionale”. Per Villagrande Strisaili almeno!

La ricetta

La prima volta che li ho visti in un piccolo ricettario di cucina sarda, ne sono rimasta ammaliata. Non li avevo mai visti, non li avevo mai assaggiati, non ne avevo mai sentito parlare. E già per questo godevano della mia curiosità e una volta preparati hanno goduto della mia stima perché sono buoni, buonissimi.

Ecco la ricetta che ti consiglio

  • 700 gr di patate bianche lesse, sbucciate e schiacciate
  • 300 gr di fisciu
  • 350 gr di semola di grano duro
  • 2 bicchieri di olio extravergine di oliva
  • Sale

Impasta gli ingredienti in una grande scivedda, elimina qualsiasi grumo e lascia riposare l’impasto per almeno mezzora.

A questo punto forma vermicelli lunghi circa 12 cm aiutandoti con l’uso di farina (l’impasto sarà probabilmente appiccicoso) e di tua figlia o di tuo figlio. Forma degli anellini e friggi.

Per quanto abbia letto in giro che vengono detti anche orrobiolus, ancora oggi non ho informazione sull’etimologia della parola gàtulis (con l’accento sulla a, mi raccomando), ma ho sguinzagliato le mie conoscenze in Villagrande Strisaili per saperne di più e a breve spero di inserire aggiornamenti.

Per cui se hai info o varianti sulla ricetta aiutami a saperne di più. E se desideri approfondire ti consiglio due libri.

Alla scoperta dell’America in Sardegna. Vegetali americani nell’alimentazione sarda di Alessandra Guigoni AM&D EDIZIONI (libro che personalmente ritengo eccezionale e dal quale provengono tutte le informazioni sulla patata in Sardegna).

Itinerari del gusto in Sardegna. Le 100 ricette della tradizione. Ed. Imago

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