La casa di Tzia Calixedda

 

Quel pomeriggio era uno dei primi di sole. Mi sentivo stanca di una stanchezza atavica e primordiale, come se tutti quei mesi pesanti e senza interruzioni felici avessero deciso di pesarmi sulle palpebre, sulla fronte, sulle spalle proprio ora, tutti assieme.

Salutai la tavolata piuttosto corposa di amici che continuavano a mangiare casu marzu e vermentino, baciai mia nonna e scelsi di concedermi qualche ora di sonno. Il torpore primaverile è dolce e profumato come una ginestra selvatica: l’odore ti raggiunge un po’ a sorpresa e ti rincuora sempre, profumandoti le labbra di buono e selvaggio.

Tortore e upupe cantavano e qualche passero pigro continuava a cinguettare la medesima melodia da una decina di minuti. Mi prese una smania incontrollabile d’alzarmi.

Tutto intorno era silenzio caotico di natura in affanno.

Non saprei dire quanto avessi dormito. Avevo dormito e questo mi bastava.

La cucina era linda, nonno da una stanza lontana russava rumorosamente, di nonna alcuna traccia. Misi la moca sul fuoco e presi un libro. Non riuscii a leggere niente.

C’era nella campagna qualcosa che mi chiamava.

Lasciai a nonna un biglietto sul tavolo sporco di caffè e zucchero e presi a camminare senza una meta.

La vita è ricca di occasioni, quella di campagna più di molte altre: io ero alla ricerca di suggestioni e trovai qualcosa che gorgogliava distante da me diversi passi. Era acqua.

La sentivo ma non la vedevo. Il sole alto e tiepido faceva brillare le spighe selvatiche, i fiori giovani e gli asfodeli secchi. Mi trovai davanti ad un cancello. Era chiuso con una robusta corda bianca. Studiai il nodo chiedendomi se sarei stata in grado di rifarlo uguale. Entrai.

Il sentiero che tagliava in due la campagna piegava morbido e indefinito, ondeggiante come un boccolo che risaliva un capo biondo e profumato. Lo seguii ascoltandolo parlare la stessa lingua dell’acqua. Era segnato da sfacciati papaveri rossi che gli altri fiori guardavano con desiderio. Ne accarezzai uno. Non resistetti alla tentazione, tagliai lo stelo peloso e portai il fiore alle narici.

<<Il fiore del sonno>> pensai, ma è probabile che le parole mi uscirono di bocca perché qualcosa da dietro un cespuglio basso di rovi in risveglio volò via. Ricordo di essermi spaventata. Io vivo in città, la campagna ha su di me il fascino delle cose proibite che un po’ si amano un po’ si temono.

Rimasi in ascolto della natura, pensai pure di tornare indietro. In quel momento l’acqua riprese a cantare e non mi rimase altro da fare che salire. Il sentiero ancora si distingueva fra l’erba alta e le spighe dure ed inselvatichite. Seguiva silenzioso l’andare della terra che ora si sollevava rigando una leggera collina. I papaveri mi guardavano timorosi d’essere colti. Quello che avevo in mano iniziò a sfiorire lasciando dietro di me lacrime di sangue cremisi adagiate su un letto d’oro e argento che si abbassava dopo il mio passaggio.

Quel sentiero dimenticato era come se qualcuno molto tempo prima lo avesse percorso con tanta frequenza che lì l’erba non era riuscita più a crescere. Cercai di immaginare un volto ma non mi riuscì. D’altronde la mia attenzione era stata rapita, la curiosità risvegliata. Risalita la china della collina una piccola casa senza tetto né porte mi guardava assolata e lucida.

Pensai d’essere ancora addormentata. Mi convinsi di vivere un sogno. Piccole pietre che un tempo dovevano essere state la delimitazione di quella piccola proprietà mi impedivano un’andatura spedita.

<<Vieni, raggiungimi, ho un segreto da svelarti>> mi diceva la casa senza tetto.

E io cercavo di sbrigarmi, di fa prima. D’un tratto le pietre si ritirarono e a due metri di distanza dall’uscio un cerchio di terra chiara si mostrava pulito dall’erba. Vi sostai a lungo e lì la casa mi parlava più forte.

Pensai ad una storia, cercai d’inventarmi un passato. Avanzai verso l’ingresso abbassando asfodeli sfioriti e cardi selvatici brillanti e pungenti.

L’acqua, scoprii in quel momento, era di un piccolo ruscelletto che scorreva ai piedi della piccola collina sulla quale cresceva come fiore selvatico la casa senza tetto. Il letto sabbioso era di un rosso intenso e vivo di papaveri in fiore che belli si lasciavano accarezzare dal venticello di fine primavera.

Mi convinsi d’essere nel sogno.

Sull’uscio mi fermai. Avevo letto da qualche parte che prima di entrare nelle chiese campestri, tanto per non disturbare le anime in preghiera, era consigliato bussare per sette volte sul portone. Io bussai tre volte sulla pietra. L’architrave antico era di legno vecchio e rosicchiato dal vento. Tre scalini facevano da ingresso e il pavimento era nascosto da fitta vegetazione. Sulle quattro pareti erano tre nicchie alte e corte e una finestra che si affacciava sul ruscello.

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Mi sentivo in casa d’altri. Posai la mano sulla pietra calda, un tempo pitturata d’azzurro.

Senza pensarci ritrassi la mano, sorpresa dall’aver scoperto in quel momento di non essere la sola ospite della casa. C’era tra la pietra e il legno una lucertola che mi guardava. Gli occhi erano umani e belli, il verde smagliante e la coda recisa. Mi guardò a lungo prima di correre altrove.

<<Di chi era quella casa sopra il ruscelletto?>>

<<Quale quella senza tetto?>> mi chiese mio cugino quella stessa sera?

<<E’ la casa di Tzia Calixedda>> disse ridendo. <<Non ci sarai entrata da sola?>>

<<Non avrei dovuto?>>

E attesi che mi raccontasse una storia, come faceva spesso quando da ragazzini trascorrevamo tutta l’estate assieme.

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