Non folklore, ma memoria viva che cura e trasforma.
In questo periodo la domanda ritorna spesso, sui social e durante le interviste.
C’è chi me la rivolge con sincero interesse, e chi con un filo di sarcasmo:
“Sì, ma perché occuparsi, oggi, di tradizione?”
Sentendola ripetere in modi diversi ho capito una cosa: pochi vedono la tradizione come la vedo io, e forse ancora meno hanno compreso davvero la natura del mio lavoro.
Questo articolo nasce proprio per raccontare cosa intendo per tradizione, e perché da vent’anni mi dedico, con passione e ostinazione, a quella sarda.
Cosa è tradizione?
La tradizione è stata definita, studiata, criticata. C’è chi la esalta, chi invita a metterla da parte.
Io in questo articolo preferisco partire dall’inizio, dal suo nome, perché l’etimologia, non mi stancherò di ripeterlo, spiega tanto, alle volte spiega tutto (come in questo caso).
Traditio in latino significa consegnare, trasmettere, affidare.
In sardo è connottu, custhumànzia: ciò che si conosce, ciò che si fa.
In tal senso tradizione è ciò che ci viene consegnato dalle generazioni precedenti perché si conoscere e si sa fare per davvero: è cultura materiale (come la panificazione) ma anche cultura immateriale (come la recita dei brebus). È un atto di fiducia ma anche di responsabilità.
Non è staticità, ma movimento: si prende, si custodisce, si reinterpreta, e si consegna di nuovo.
Nel pensiero comune (e antropologico) ci sono posizioni differenti:
- C’è chi la vede come conservazione museale. Pensa al classico “i culurgiones non si toccano”, ignorano che i culurgiones sono frutto di infinite innovazioni dettate dalla fantasia e dalle necessità del tempo. Te lo racconto meglio 👉🏼 qui
- Altri – tra cui io, e forse anche tu – la vedono come un campo dinamico, in cui si intrecciano strati antichi e rielaborazioni moderne.
Eric Hobsbawm (1917–2012), storico britannico parlava di “invenzione della tradizione”: molte usanze che chiamiamo antiche sono in realtà recenti costruzioni identitarie.
A Gustav Mahler (1860-1911) compositore, si attribuisce una frase che trovo davvero potente: “La tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri”. Due immagini, due avvertimenti: non scambiare la cenere per fuoco, non scambiare la fissità per vita.
Bachisio Bandinu (1939), antropologo e scrittore sardo, aggiunge: tornare a su connottu non è nostalgia, ma prospettiva. Il passato non è fissità, è attraversamento del tempo.
Bachisio Bandinu in “Identità, cutura, scuola” 2003
“Bisognerebbe specificare in che modo “Torrare a su connotu” possa servire a risolvere i problemi del presente e secondo quali prospettive apra il futuro… È diffusa la concessione che su connottu sia il passato, una condizione di vita e di valori che sono appartenuti e che ora sono venuti a mancare… Si tratta non di meno di un luogo immaginario senza riferimenti definiti a un tempo reale. Anzi spesso vengono esaltati valori positivi decontestualizzati rispetto ai vissuti dolorosi e drammatici travisando i caratteri storici del passato… Il passato non è fissità né fissazione…”
Tornare alla tradizione dunque deve essere una rielaborazione del passato, non un lutto, ma una memoria operativa, un attraversamento del tempo. Il passato in tal senso non è una tana dove rifugiarsi, ma un terreno fertile da cui ripartire.
Per dirlo con un’immagine: la tradizione è un’erba selvatica. Cresce, si adatta, mette radici. Ma può succedere che il vento del presente porti lontano i suoi semi, trasformandola.
Tradizione, mito e utilità
Studiare e raccontare la tradizione oggi non è un lusso intellettuale, è un atto politico e culturale. È un modo per ricordarci che abbiamo altre chiavi di lettura del mondo oltre a quelle del progresso lineare. Uno strumento critico contro le narrazioni dominanti.
Conoscere la tradizione vuol dire:
- capire i codici simbolici con cui un popolo si è raccontato
- accedere a un linguaggio quotidiano ma poetico e spesso rituale che ci rapporta al mondo in modo sostenibile
- offre alternative, visioni, intuizioni altrimenti perdute.
- riconoscersi come comunità attraverso gesti, parole e riti condivisi
- custodire memoria storica e trasformarla in consapevolezza
- nutrire creatività e innovazione
Pensa al mito delle janas: non è solo favola, è una mappa per l’immaginario femminile sardo, una chiave per comprendere il rapporto tra natura, sapere, solitudine e potere (te ne parlo meglio 👉🏼qui). Pensa alla tradizione del pane: lì dentro c’è sorellanza, ritualità, memoria, economia, identità (te ne parlo meglio 👉🏼qui).
Non significa credere ciecamente al mito o rifugiarsi nel gesto di fare pane ogni giorno, ma riappropriarsi, facendole evolvere, di quelle mappe culturali che parlano di una migliore condizione di vita femminile, del potere della sorellanza, della ritualità, e della memoria, del vivere comunitario e sostenibile.
Sì, serve studiare e raccontare la tradizione. Ma serve farlo senza nostalgia cieca e senza paura del cambiamento. Serve un approccio rispettoso, critico e affettuoso. Ma soprattutto lucido.
Decolonizzare la tradizione: il cuore del mio lavoro
Lavoro da decenni con la tradizione. All’inizio ne ero solo affascinata. Sono cresciuta a Cagliari, dove usi e costumi non erano pane quotidiano: a 27 anni, scrivendo la mia tesi, mi sono scontrata per la prima volta con la nostra cultura tradizionale e ne sono rimasta folgorata.
Quella fascinazione non si è mai spenta, ma col tempo si è trasformata in uno sguardo più lucido e critico. Tutti i miei lavori —dai corsi online, alle consulenze private, fino ai progetti editoriali— hanno lo stesso obiettivo: restituire dignità critica alla tradizione, affrontare i simboli con consapevolezza scientifica, trasformare temi noti – come le janas, i cicli dell’anno, i riti e le pratiche gastronomiche – in una riflessione profonda sull’umano.
Col passare degli anni, questo obiettivo si è chiarito sempre di più fino a diventare netto: decolonizzare la tradizione.
Decolonizzare la tradizione (in Sardegna)
In molti luoghi del mondo – Irlanda, Grecia, Giappone, per citarne alcuni – i miti sono motivo di fierezza. Si distingue con chiarezza tra mitografia, antropologia e storia: tre piani diversi, ugualmente importanti. In Sardegna, invece, questa distinzione fatica a emergere. Troppo spesso la tradizione viene ridotta folklore da sagra, souvenir per turisti o sfondo di spot pubblicitari
Non so nemmeno come sia successo, ma presto il mio studio della tradizione ha avuto un obiettivo che è diventato nitido con il tempo: decolonizzare la tradizione da questa visione banale e semplicistica. La cultura sarda materiale ed immateriale è un bacino ricco, potente, esemplare: non è frutto della semplicità degli uomini che la hanno generata, ma della grandezza di uomini e donne che con cura l’hanno elaborata, vissuta, tramandata. Il mio lavoro mira a rendere questa consapevolezza patrimonio condiviso, prima dai sardi e poi dal resto del mondo.
Decolonizzare la cultura sarda significa restituirle dignità critica
Per troppo tempo la nostra tradizione è stata raccontata come semplice, ingenua, folkloristica. Non lo era. È stata resa così da una narrazione coloniale che ci voleva piccoli, pittoreschi, marginali. Riconoscerne invece la complessità, il valore e il potere significa usarla come strumento critico, capace di potenziare la Sardegna e di ribaltare le narrazioni dominanti.
Decolonizzare la cultura sarda significa liberarla dalla cartolina
La Sardegna è spesso venduta come luogo di “folklore pittoresco”. Però la tradizione non è solo costumi e canti per turisti, ma conoscenza incarnata, esperienza tramandata, sguardo sul mondo.
La tradizione mette al centro la comunità, e non ai margini del marketing.
Decolonizzare la cultura sarda significa restituirle profondità
Non è vero che è “vecchia e superata”, come ci racconta la modernità colonizzatrice.
E non è neanche vero che va sacralizzata in blocco, come fosse intoccabile.
Decolonizzare significa ascoltarla davvero, con occhi critici ma rispettosi. È vedere il sapere dentro i gesti: nelle mani che impastano, nei piedi che danzano, nelle erbe che curano.
Decolonizzare la cultura sarda significa darle voce dal di dentro
Significa raccontarla da chi la vive e la custodisce, non da chi la osserva dall’esterno.
È dare più spazio a chi ha la lingua, la memoria, il corpo che porta la tradizione.
È fare in modo che la narrazione non sia più “sulla Sardegna”, ma dalla Sardegna.
Decolonizzare la cultura sarda significa riconoscere che anche la tradizione cambia
Decolonizzare è smettere di chiedere alla tradizione di restare “pura”. La cultura si muove, si adatta, si trasforma. È viva perché respira. E questo non la inquina, la rafforza.
Decolonizzare la cultura sarda significa usarla per guarire
Infine, decolonizzare è riappropriarsi della tradizione come strumento di cura, di connessione, di costruzione identitaria.
È dire: questa conoscenza è mia, ci sono cresciuta dentro, e posso usarla per stare meglio, per capire chi sono, per riconnettermi con la mia comunità e con la natura.
In conclusione
La tradizione non è museo né folklore da cartolina.
È fuoco vivo, erba selvatica, radice che respira.
Non serve a fuggire nel passato, ma a illuminare il presente e ad aprire il futuro.
Occuparsi di tradizione sarda significa custodire la voce dei nostri padri e delle nostre madri, per consegnarla trasformata ai figli che verranno.
È il mio modo di restituire bellezza a questa terra di granito e mirto, che non smette mai di insegnarmi chi sono.
✨ La tradizione è la nostra mappa.
Se credi anche tu che questa conoscenza non sia “tonteria”, condividi l’articolo, commenta con il tuo pensiero e seguimi sui social. Il tuo sostegno farà la differenza.
Bibliografia essenziale
- Bandinu, B., Cherchi, P., & Pinna, M. Identità, cultura, scuola. Cagliari: Domus de Janas, 2003.
- Caterini, F. Colpi di scure e sensi di colpa. Storia del disboscamento della Sardegna dalle origini a oggi. Sassari: Carlo Delfino Editore, 2013.
- Hobsbawm, E., & Ranger, T. (a cura di). The Invention of Tradition. Cambridge: Cambridge University Press, 1983.











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