Il tesoro nascosto: il mito del siddau e la rinascita che si cela sottoterra

Mircea Eliade scriveva che il mito narra una storia sacra, un avvenimento che ha avuto luogo nel tempo primordiale, il tempo favoloso delle origini.
I miti, diceva, rivelano le irruzioni del sacro nel mondo — e sono proprio queste irruzioni a fondare la realtà così come la conosciamo.
In seguito all’intervento degli esseri sovrannaturali, l’uomo diventa ciò che è: mortale, sessuato, culturale.
Ecco perché il mito non è mai solo un racconto del passato, ma un atto che plasma continuamente il presente.
Credo che questa definizione si adatti perfettamente al mito sardo de su siddau: i tesori nascosti, le ricchezze sepolte che hanno fatto battere il cuore dell’immaginario isolano.
Nonostante i rimaneggiamenti e le versioni infinite, il mito conserva un nucleo che parla chiaro: il sottoterra è luogo di tesori nascosti, ma anche di rigenerazione, abbondanza e fortuna.
Il sottoterra: grembo e confine
Per la mia gente, la terra non è mai stata soltanto materia: è corpo, divinità, ventre e tomba insieme.
È il luogo nel quale si guarisce e quello nel quale si può trovare fortuna e futuro.
Non è un caso che, fin dalle origini, i sardi abbiano seppellito i defunti sotto terra — o a contatto con essa — e non abbiano preferito bruciare i propri defunti per inviarli in cielo, come altrove.
In Sardegna il divino che rigenera è in terra, non in cielo.
La vita, la morte e la rinascita si compiono nel ventre del mondo, e questa visione plasma profondamente il rapporto tra i sardi e il sottosuolo.
Le Domus de Janas, con la loro forma uterina e le incisioni simboliche, ci parlano della stessa verità: il sottoterra è soglia, grembo, promessa di ritorno.
È lì che si cela il tesoro.
Il viaggio iniziatico
Nel mito dei tesori ritrovati, gli esseri sovrannaturali fanno irruzione nella vita dell’uomo per trasformarlo.
Sono le janas e gli antenati che visitano in sogno.
Le prime svegliano i prescelti indicando loro il luogo nel quale il tesoro destinato è sepolto.
E ricordiamolo: solo il tesoro che è nostro può essere raccolto.
Gli antenati invece ci mostrano in sogno il tesoro, avvertendoci di eventuali pericoli che alcuni hanno sperato di affrontare con un libro detto “del comando” di cui ti racconterò presto.
Trovare il proprio tesoro non è semplice.
È un viaggio che ha regole rituali: si cerca da soli, in silenzio, con coraggio, nei tempi giusti.
Nel cammino si incontrano creature che ostacolano il ritrovamento — diavoli, soprattutto, ma anche figure mitiche come sa musca macedda, una figura misteriosa in grado di distruggere interi villaggi.
Sono le forze del caos necessarie alla trasformazione: proteggono il tesoro non per impedirne l’accesso, ma per selezionare chi è pronto.
Il ritrovamento di un tesoro è una chiamata, una prova iniziatica.
Il mito lo dice anche se non chiaramente: la prova deve essere affrontata e chi supera la paura e rispetta il rito trova il tesoro: oro, nei miti moderni; un tempo, forse, crescita, consapevolezza, trasformazione.
La cenere, promessa di vita
Quando il rito non è rispettato, il tesoro si trasforma in cenere.
Ma la cenere, nel suo significato antico, non è assenza: è terra, è seme, è fertilità.
Nei riti di Sant’Antonio Abate, ad esempio, la cenere del fuoco sacro veniva conservata e sparsa nei campi come protezione e augurio di prosperità.
La trasformazione richiede sacrificio: ogni tesoro nasce dal fuoco della prova.
L’equilibrio e la misura
Molte leggende si concludono male: chi trova un tesoro e si arricchisce troppo in fretta perde il senno.
In Campidanese si dice arricchiu a scrisóxiu — “arricchito truffando, di nascosto”.
Questa variante, probabilmente moderna del mito, riflette una società nella quale la ricchezza è desiderata ma anche temuta.
Il livellamento sociale, l’equilibrio, erano regole sacre: la ricchezza improvvisa rompe l’ordine comunitario e viene vista con sospetto.
In molte culture, del resto, i miti dei tesori nascosti agiscono come dispositivi di equilibrio sociale: scoraggiano l’avidità e ammoniscono contro la rottura dell’ordine collettivo.
Siddau: la lingua come archivio del mito
La lingua sarda, come sempre, custodisce nel suono ciò che la cultura racconta nei simboli.
Siddau, termine con cui si indicano i tesori nascosti, deriva dal latino sigillatu — “sigillato”, “chiuso”, “suggellato”.
È una parola che parla di silenzio e custodia, di qualcosa che non deve essere toccato finché non è tempo.
Nel lessico sardo, siddau si affianca a una costellazione di termini — tresoru, trisoru, pósidu, addoru, iscusórgiu — ognuno portatore di sfumature che oscillano tra il concetto di ricchezza materiale e quello di cosa nascosta, sacra, separata.
C’è perfino petra suiddina, la “pietra che ricopre un tesoro nascosto”: il sigillo fisico del segreto.
L’etimologia ci rivela così che il tesoro non è soltanto un oggetto da scoprire, ma un mistero da custodire.
Ogni siddau è qualcosa di “tappato” e “silenzioso”, in attesa di chi sappia ascoltare.
In fondo, anche la conoscenza — come la terra — si apre solo a chi sa rispettarne i tempi.
Il termine siddau non descrive quindi solo un oggetto, ma una visione del mondo: ciò che è sigillato non è perduto, ma “in potenza”, in attesa di manifestarsi.
È la stessa logica che governa i cicli della natura e dell’iniziazione.
Conclusione
Il mito del siddau riflette una logica antichissima: seminare (nascondere) per raccogliere (ritrovare).
È un racconto ciclico di morte e rinascita, come la semina dei semi sotto terra o il ritorno del defunto nel grembo materno della Terra-Madre.
Il mito dei tesori nascosti ci parla ancora oggi — non solo di oro, ma di desiderio, tentazione, paura e coraggio.
Ci ricorda che ogni essere umano custodisce un tesoro interiore, sepolto nel proprio sottosuolo simbolico.
E che per trovarlo serve un viaggio: un atto di fiducia verso la terra, verso l’ombra, verso se stessi.
In foto la bella Venere di Turriga di Terra Smeralda
Per approfondire
Il mito, come ogni tesoro, si svela a chi ha pazienza di scavare.
Chi desidera esplorare le sue molteplici interpretazioni può partire da alcuni testi fondamentali:
- Mircea Eliade, Mito e realtà, Borla, Roma, 1972.
- Giulio Angioni, Pane e formaggio e altre cose di Sardegna, Il Maestrale, 2000.
- Claudia Zedda, Creature fantastiche in Sardegna, Condaghes, 2011











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