Paura dei defunti: di coltelli sul tavolo e brebus

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Hai mai sentito parlare di quel rito misterioso e antichissimo che vede le donne di Sardegna, la notte fra il 1 e il 2 novembre (in alcune località anche il 31 ottobre), apparecchiare una tavola destinata non ai vivi ma ai morti
Si tratta di una resistenza culturale cocciuta che parla di comunione alimentare con i defunti
Mangiamo con i nostri antenati — is mannos, “i grandi” — e offriamo loro cibo da epoca prenuragica. 
In molte Domus de Janas e nei loro dintorni sono state ritrovate vere e proprie tavole per gli antenati, con antichissimi residui di cibo. 

Oggi non voglio parlarti degli aspetti sociali e antropologici di un rito tanto antico (se vuoi approfondire, ne ho raccontato qualcosa qui e ne parlo diffusamente in questo seminario). 
Oggi voglio parlarti di uno degli aspetti più sottili di questo rituale

Ci sono almeno due cose che, quando si apparecchia sa mesa de is mortus (la tavola dei defunti), non si devono assolutamente fare

  1. Pulire il pavimento: si potrebbe erroneamente spazzare via anche l’anima della nonna o del nonno che sono tornati (ne parleremo poi, anche questo è un argomento goloso). 
  1. Lasciare posate puntite (coltelli o forchette) a tavola. 

Le anziane raccontano questo: gli antenati che tornano potrebbero ferirci usando quelle posate. 
Questo potrebbe succedere per invidia del fatto che noi siamo ancora vivi e loro morti, ma anche per nostalgia: ci ucciderebbero per portarci nel loro strano mondo di fantasmi e spettri. 

L’ultimo punto, soprattutto, parla di un timore nemmeno troppo nascosto nei confronti di quelli che tornano. 
Li aspettiamo, ma li temiamo. 
Desideriamo trattenerli, ma abbiamo bisogno di liberarli. 

Ecco, questo atteggiamento conflittuale ha dato avvio alla domanda: da quand’è che abbiamo paura dei nostri antenati? E soprattutto, perché? 

La morte ha sempre fatto paura, ma le anime degli antenati no. 

I Greci offrivano miele e latte alle psichai, i Romani celebravano i Parentalia e i Lemuria, e in Sardegna le Domus de Janas custodivano corpi e oggetti dei defunti come se dovessero continuare a vivere. 
Il morto non era un’assenza, ma una presenza trasformata. 

Jean-Pierre Vernant lo riassume così: “Il defunto continua a partecipare al mondo; la sua presenza è altra, ma necessaria.” 
Il timore, in un certo senso, era rituale: si temeva di dimenticare un’offerta, non di incontrare il morto. 
Solo in quel caso l’antenato — esattamente come gli dèi — sarebbe diventato molesto. 

Il culto dei defunti era un gesto di equilibrio: nutrire chi era passato altrove perché la terra continuasse a nutrire i vivi. 
La morte apparteneva al ciclo vitale, condizione necessaria della vita. 

Il culto degli antenati è una delle forme religiose più antiche e universali. 
Nasce dal bisogno di mantenere un legame con chi ci ha generati, non per paura ma per gratitudine e continuità. 
L’antenato non è un fantasma, ma una forza protettrice, un principio ordinatore che abita il focolare, i campi, gli alberi sacri del villaggio. 
In Sardegna — come in molte culture tradizionali — i morti non “scompaiono”: si trasferiscono e trasformano. 
Vivono nel grano che germoglia, nel vento che attraversa la casa, nei sogni. 

Questo tipo di rapporto non nasce da fede cieca, ma da una logica profonda: riconoscere il debito di esistenza e onorarlo, per garantire che la vita continui. 
L’antenato è memoria incarnata, guardiano della sua gente, custode del tempo, archetipo della continuità familiare e cosmica. 
Il pane che si lascia sulla tavola o la luce che resta accesa non sono offerte votive, ma gesti di appartenenza: ricordano che il confine tra vivi e morti è permeabile, una soglia più che un muro. 

Per secoli, la comunità è stata costruita proprio su questo equilibrio: gli antenati vegliano sui vivi, e i vivi si prendono cura dei morti, perché tutti presto o tardi saremo mannos.
È una relazione simmetrica, basata su rispetto e reciprocità, non su colpa o terrore. 

Le ragioni che un tempo erano puramente simboliche trovano oggi conferma anche nella scienza. Onorare i defunti non è soltanto un gesto di devozione o memoria, ma un atto che ha effetti reali sul nostro equilibrio psicologico e relazionale.

1. Riduce l’ansia e la paura della morte.
Ritualizzare la relazione con i defunti aiuta a dare senso al mistero della fine. Quando la morte entra in un sistema di significati condiviso, non fa più terrore: diventa parte del ciclo della vita.

2. Rafforza la resilienza.
I gesti rituali — accendere una candela, lasciare del cibo, pronunciare un nome — hanno un potere calmante. Ripetere questi gesti ordina le emozioni, placa il dolore e restituisce una sensazione di continuità dopo la perdita.

3. Consolida l’identità personale.
Ricordare da chi veniamo ci radica. Il culto degli antenati ci ricorda che non siamo soli, che la nostra storia comincia molto prima di noi. È un esercizio di memoria che rafforza la percezione di sé.

4. Crea coesione sociale.
Celebrare i morti è un modo per ritrovare la comunità. I riti collettivi rinsaldano i legami, generano fiducia e ci ricordano che vivere significa anche appartenere.

5. Stimola gratitudine e altruismo.
Quando pensiamo ai defunti come presenze benevole, attiviamo un sentimento di riconoscenza che migliora l’umore e il benessere. Onorare chi ci ha preceduto ci rende più empatici verso chi ci sta accanto.

Con il Medioevo cristiano, però, questo equilibrio si incrina e noi perdiamo i nostri antenati e il loro valore. Con tutto quel che ne consegue.

Nel Medioevo cristiano accade qualcosa di radicale. 
Fra XII e XIII secolo la Chiesa, come ha mostrato Jacques Le Goff, elabora l’idea di Purgatorio: un terzo spazio tra Inferno e Paradiso dove le anime espiano le proprie colpe. 
Da allora il defunto non è più un antenato, ma un penitente.  E il ricatto continua, anche dopo la morte. 

Le apparizioni dei morti, prima domestiche, diventano “autorizzate da Dio”: i morti tornano sì, ma per chiedere messe, offerte, suffragi. 
Gabriella Zarri, nel suo intervento “Purgatorio particolare e ritorno dei morti tra Riforma e Controriforma”, parla non a caso di anime petitorie

Due visioni si contendono il campo: 
– una vede le anime prigioniere in un luogo reale; 
– l’altra, più vicina alla sensibilità popolare, le immagina erranti tra i vivi, sospese finché non saranno liberate dalle preghiere. 

È questa seconda che attecchisce nella Sardegna popolare, dove la memoria dei cortei di antenati e dei banchetti agrari si fonde con la dottrina cristiana. 
Da qui nasce il linguaggio potente dei morti in cammino. 

L’idea di corteo dei defunti, tanto cara ai sardi, è in un certo senso l’immagine popolare del Purgatorio in movimento: non un luogo statico, ma una processione di colpe e memorie che attraversa i paesi, chiedendo preghiera e pietà. 

Eppure il Purgatorio, nonostante sembri impossibile, non fa parte del cristianesimo primitivo. 
Nasce in un’epoca in cui l’Europa comincia a ragionare in termini di ordine, misura e contabilità. 
Tra XI e XIII secolo, nel cuore del Medioevo, la Chiesa sente il bisogno di organizzare l’aldilà in modo più amministrativo, di dare forma a quell’immensa zona grigia dove finivano le anime dei battezzati non del tutto pure, ma nemmeno malvagie. 
Il Paradiso era troppo alto, l’Inferno troppo definitivo. 
Serviva un luogo intermedio, un ufficio temporaneo dell’eternità. 

E dato che la spiritualità di quei secoli era attraversata da un senso acuto di colpa e di debito, tutto si misurava, si bilanciava, si espungeva. 
Nasce la burocrazia del peccato: confessioni, penitenze, indulgenze. 
Ogni errore ha un prezzo, ogni pena una durata, ogni preghiera un valore di riscatto. 
In questo clima contabile della salvezza, anche l’aldilà si riorganizza: non più solo il bianco e il nero, ma un luogo di transito, un ufficio dove le anime possono scontare il residuo delle proprie mancanze. 

Jacques Le Goff, che ha dedicato un intero libro alla nascita del Purgatorio, indica la svolta intorno al 1170, quando per la prima volta la parola Purgatorium compare nei testi latini come sostantivo proprio: non più un “fuoco purificatore”, ma un luogo preciso. 
In quell’istante il Purgatorio si materializza nella mente europea: prende una geografia, un tempo, una temperatura. 
Le visioni mistiche lo descrivono come un territorio intermedio, né luminoso né oscuro, dove le anime bruciano senza disperarsi. 

Nel secolo successivo teologi come Gregorio Magno, Pietro Lombardo e Tommaso d’Aquino gli danno cittadinanza piena nella teologia cristiana: il Purgatorio è reale, popolato, regolato. 
E, come ogni istituzione medievale, si accompagna a un sistema di scambio: i vivi possono aiutare i morti attraverso messe (a pagamento), offerte in denaro e preghiere. 
Tutto ciò arricchisce la Chiesa e alimenta la fede dei credenti. 

Non deve sfuggire infatti che aiutare i morti con messe, offerte e preghiere li avrebbe fatti assurgere più rapidamente in Paradiso e questi, una volta abitanti di quel luogo sacro, avrebbero portato beneficio ai viventi che li avevano aiutati. 
Un sistema di scambio reciproco che aiutava tutti: la teologia del reciproco soccorso. 
“Io prego per te, tu intercederai per me.” 
Nasce così il mercato della salvezza. 

In questa nuova geografia morale si nasconde l’origine della nostra paura dei morti. 
Non temiamo più il corpo che decompone, ma l’anima che esige. 
Il defunto diventa un essere sospeso, non più pacificato, che attende qualcosa da noi. 
Il Purgatorio trasforma l’antico culto degli antenati in una contabilità spirituale, e il gesto di lasciare un pane o una candela si carica di un nuovo significato: non più dono, ma pagamento. 

Da quel momento, l’aldilà smette di essere una soglia e diventa un sistema. 

Sa Reula è termine gallurese che identifica un corteo di anime — o di future anime — di defunti. 
In alcuni casi si riteneva che gli appartenenti a Sa Reula fossero in parte anime in apprendistato: durante il giorno abitavano un corpo vivo, ma la notte se ne distaccavano per prepararsi alla morte che sarebbe giunta entro l’anno. 
In altre località Sa Reula diventa su carru de is mortus o su carru gocciu. 

Sorvolando sulle visioni lugubri di questo corteo lungo e silenzioso, una cosa è certa: nella Sardegna tradizionale era risaputo che chi incontrava quelle anime non doveva né guardarle né seguirle, e soprattutto non farsi “attraversare” da loro. 
Se avessero percepito l’odore di un vivo, lo avrebbero seguito e attraversato

Il concetto è semplice: l’anima è immateriale, il corpo umano materiale. 
Come un soffio di vento, l’anima può penetrare nel corpo, attraversarlo e passare oltre. 
Lo sfortunato, in quel caso, si sarebbe ammalato o avrebbe ricevuto un presagio di morte. 
Il corpo della persona attraversata dalle anime, dicevano le anziane, si sarebbe coperto di lividi. 

Sa Reula è, in fondo, il Purgatorio in cammino: non un aldilà remoto, ma un corteo che attraversa i nostri villaggi, ricordandoci che la morte, da quando è diventata colpa, non trova più pace. 

La paura dei defunti si materializza anche nella convinzione che sognare i morti fosse di cattivo auspicio, a meno che non portassero messaggi. 
In quel caso era Dio a inviarli; diversamente, erano messaggeri del demonio. 
Nel secondo caso sarebbero stati forieri di futura morte nella casa del sognante. 

Per proteggersi da questi sogni, in Sardegna è un tripudio di brebus da recitarsi prima del sonno. 

Ma questa è un’altra storia… Se vuoi che te la racconti, commenta sotto.

Non abbiamo paura dei defunti da sempre. 
Per millenni li abbiamo onorati, temendo soltanto di non offrire loro il giusto rito, la giusta parola, la giusta memoria. 
La paura vera nasce in un processo di mercificazione dell’aldilà, davvero ben riuscito. 
Quando la Chiesa medievale ci ha insegnato che i defunti potevano nuocerci anche dopo la morte, nonostante le celebrazioni a loro dovute, ci ha separati dal mondo degli antenati causando una ferita sociale che ancora sanguina. 
Eppure, quel mondo era — e resta — fondamentale per l’equilibrio psicologico e simbolico dei vivi. 
Credo sinceramente che ricordare i morti, offrir loro pane, vino o parola, non è superstizione: è un atto di continuità umana, un modo per non perdere la radice. 

🌾 Hai mai sentito raccontare di tavole imbandite per i defunti? Scrivilo nei commenti o condividi l’articolo per far rivivere queste memorie.
🔥 Condividi questo articolo: tenere viva la memoria è il modo più potente per non perdere la connessione con le nostre radici.

Antenati: tavola, erbe, rituali – Il seminario Janas Academy disponibile fino al 10 Novembre 2025

Greenberg, J., Pyszczynski, T., & Solomon, S. (1997). Terror Management Theory of Self-Esteem and Cultural Worldviews: Empirical Assessments and Conceptual Refinements. In M. P. Zanna (Ed.), Advances in Experimental Social Psychology (Vol. 29, pp. 61–139). Academic Press.

Norton, M. I., & Gino, F. (2014). Rituals Alleviate Grieving for Loved Ones, Lovers, and Lotteries. Journal of Experimental Psychology: General, 143(1), 266–272.

Wilson, J. P., Ross, M., & Olver, J. (2017). Genealogical Memory and Self-Continuity. Memory Studies, 10(3), 324–338.

Xygalatas, D., Mitkidis, P., Fischer, R., Reddish, P., Skewes, J., Geertz, A. W., Roepstorff, A., & Bulbulia, J. (2019). Ritual and Cooperation: Evidence from a Cross-Cultural Study. Nature Human Behaviour, 3, 460–467.

Emmons, R. A., & McCullough, M. E. (2003). Counting Blessings versus Burdens: An Experimental Investigation of Gratitude and Subjective Well-Being in Daily Life. Journal of Personality and Social Psychology, 84(2), 377–389.

  • Jacques Le Goff, La nascita del Purgatorio, Torino: Einaudi, 1982. 
  • Jean-Pierre Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, Torino: Einaudi, 1970. 
  • Philippe Ariès, L’uomo e la morte, Bari: Laterza, 1980. 
  • Gabriella Zarri, “Purgatorio particolare e ritorno dei morti tra Riforma e Controriforma”, in Atti del Convegno di Torino, Torino, 1998. 
  • Carlo Pillai, Il tempo dei santi, Cagliari: AM&D Edizioni, collana “I Griot”, 1994. 
  • Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino: Bollati Boringhieri, 1976. 
  • Robert Hertz, Contributo a uno studio sulla rappresentazione collettiva della morte, in Sociologia religiosa e folklore, Milano: Franco Angeli, 1994 (ed. orig. 1907). 
  • Roger Bastide, Il sacro selvaggio e altri saggi, Brescia: Morcelliana, 1975. 
2 Comments
  • Stefania Atzeni
    Novembre 1, 2025

    Buongiorno, sono nata nel sulcis dove l usanza di apparecchiare x i morti nn c è, la prima volta ho sentito di questa usanza da un amica di Bosa, ossia apparecchiare e lasciare alimenti e una finestra aperta in modo che i defunti potessero entrare.
    Mentre raccontavano de su Carrù de i mortus, se di notte si sentiva rumore di ferri trascinati era il carro dei morti che passava x portare via con sé qualche anima, nn si poteva guardare x strada se si sentiva questo.

  • Kalaris
    Novembre 1, 2025

    Ciao Stefania, grazie per la tua condivisione.

    Quando chiesi a mia nonna, che aveva vissuto a lungo a Narcao, di raccontarmi qualcosa del carro de is mortus, ricordo che ebbe paura. Era già molto anziana, e mi disse che non era riuscita a leggere, di notte, la parte del mio libro in cui ne parlavo.

    Sono storie potenti, intrecciate ai fili che ancora ci sostengono. Proprio per questo sono preziose: conoscerle e comprenderle ci aiuta, se serve, a sciogliere alcuni nodi stretti.

    C.

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