Leonardo da Vinci a Barumini

 

Piccola è piccola, e tutte pietre scure e cielo intenso. Tutta succo, polpa e tranquillità rotta solo da macchine che corrono spedite, sicure della strada che dovranno rosicchiare. Piccola è piccola, ma tutta storia che si racconta assaporando con l’occhio intorpidito le pietre che parlano di ieri, e ne sono certa, tentano di dirci del domani. Ma siamo affamati di pane duro e senza denti, e non sappiamo più ascoltare.. Sarà stato il primo sole di primavera, sarà stato che non avevo da lavorare ma solo da gustare, sarà stato che il nuovo mi affascina sempre, ma Barumini mi è rimasta negli occhi.


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Non tanto per la mostra di Leonardo da Vinci, che bella lo è in maniera incontestabile. Quel legno che ha preso forma di idee geniali odora intensamente di impregnante, e quegli oggetti insoliti funzionano per davvero. Nessuna si sarebbe dovuta maneggiare, ma le mie irriverenti manine non hanno resistito. Oggi non sorprendono più di tanto la nostra vista allenata all’assurdo. Ieri dovevano essere una porticina piccina che si affacciava contro un futuro che in pochi credevano sarebbe arrivato. Più incantevole la storia de Su Nuraxi ritrovato, raccontata da foto in bianco e nero, sgranate quanto basta per distinguersi dalla realtà. Volti di uomini a lavoro, che ammutoliscono durante un attimo lungo una foto per fare la propria comparsa in una storia che ingiallirà. Mi domando a che pensassero quando gli si chiese di scavare la terra, mi sono domandata che sensazione sia per Lilliu Giovanni, professore, entrare in quel centro che porta il suo nome, come figlio, come erede.

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Sa pintadera più di altri frammenti del passato ha schiaffeggiato la mia curiosità. A Barumini è un tormentone. Risalendone le V sovrapposte, gli occhi centrali, la ciclicità della sua forma ho cercato del senso perduto. Forse per sempre. Che se il segreto venisse svelato forse il fascino dell’argilla che dava forme ai pani votivi evaporerebbe, come profumo. Sicché è bene che ciascuno trovi un proprio senso, una propria storia. La mia, l’ho già.

L’incanto, quello vero è stata la casa Zapata. Struttura civile spagnola del XVI secolo, esemplare pressoché unico. Io direi piuttosto giardino segreto, finestra sul castello, uovo di Pasqua con sorpresa. La sorpresa è un nuovo complesso nuragico, bianco come il calcare, che corre lontano meno di un chilometro da su Nuraxi, quello nero, quello di basalto, quello che conosciamo. Ossatura incantevole e misteriosa, tutta polvere ed entusiasmo di chi scava, di quella villa che si affaccia sfrontata contro il castello di Las Plassas.

Un cancello sgangherato potrebbe chiudere le porte al sogno, ma è bello spalancato, e lascia che un paesaggio da fiaba fluisca contro la fantasia di chi osserva. Io a pomeriggio inoltrato ho sentito solo meraviglia, calore contro le guance, insetti in volo che ronzavano indaffarati, e una brezza leggera che intorpidiva.

Al rientro tutta la stanchezza di un viaggio lungo poche ore. Ma il bello del rientrare a casa è proprio quello, lamentarsi della stanchezza, sorridere della giornata trascorsa, di quelle che non sono andate via silenziose.

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